Esistono quattro tipi di adesso. Il primo adesso: il momento in cui sto scrivendo il testo sul mio blocco da disegno, seduto in sala passeggeri a Roma Termini, aspetto un cambio di sei ore. Sono le 12 e 47 del primo maggio 2010. Sono da solo, vorrei non esserlo, e per questo lo sto scrivendo, così grazie al meccanismo della discografia potrò raccontarlo a un sacco di persone. Poi il secondo adesso: il momento in cui io parlo e Rico registra, in cui sentite la mia voce, proprio questa, sebbene le parole siano state scritte nel primo adesso, non in questo, quindi nel primo adesso mi chiedo cosa succederà nell’arco temporale che separa la sala d’aspetto della stazione da questa sala anecoica di registrazione. Se me lo chiedete nel quarto adesso potrei anche raccontarvelo, ma prima il terzo adesso, dove il disco è ultimato, uscito, e tu sei arrivato ad ascoltare fino a questo punto. Proprio tu, con le cuffie, con l’impianto, proprio tu, una persona che conosco, o che non ho mai sentito o visto. Provo a prevedere quel che penserai, sentendo che afferro un pezzo del tuo tempo. Sono quasi certo che già pensi a un paradosso: l’etimologia di questo termine è la chiave per smontare tutti i paradossi. E dai, non ve la spiego, perché non appena voi sentite una parola in greco antico, percepite il mio suggerimento come un pretenzioso ordine, e mi tirate fuori un altro paradosso, quello sulle mie intenzioni. Ah, perché, le vostre sono chiare? Tutti i cosiddetti obblighi derivati dall’esporsi sono congetture che vi spiega meglio Luis Buñuel, regista de “L’angelo sterminatore”. Una citazione genera altri adesso, che possiamo affrontare finalmente insieme dentro al quarto, dove il rituale del concerto prevede che noi si esegua, in molti casi si ripeta, perché dicono sia divertente, anche se a volte perde la sua verve. Non è questo il momento in cui si crea l’interazione, bensì dopo, giù dal palco, quando abbiamo finito. Possiamo avere un bel litigio, un dialogo, una discussione: siamo qui per questo, non per il concerto. Infatti è un gioco che si rompe quando suoniamo di fronte ai nostri amici, gente che ci conosce. Ma fin’adesso, fino al quarto, non ho centrato il punto, e non solo perché definire un punto e poi centrarlo è come tirare con l’arco al centro del bersaglio sostenendo in questo modo il proprio essere in grado di centrare dei bersagli non fissi, in movimento, ma anche e soprattutto perché sono io il bersaglio, il punto. Sono io che voglio spiegazioni. Vedete frecce nel mio corpo? In questo pezzo non succede niente, è solo un modo personale, esteso per dire “adesso”. Il mio appuntamento è fissato per ieri. Gli unici momenti che sento vivi ed autentici sono gli onirici percorsi che non posso trasmettervi, dato che il mio cervello non esce composito, VGA o S-Video. Non ho mai visto nessun film, cartone animato, ascoltato disco, letto libro, giocato a gioco, trascorso momento che fosse attiguo ad un frammento nel mio incubo migliore o del mio peggiore sogno. Un luogo senza momenti, un momento senza luoghi, che dà potere ai maghi disintegrandoli in frantumi paradossi. Organismi tanto belli quanto trabocchettici. Adesso vi trascrivo paro paro alcuni estratti dai miei privati scritti in cui mi appunto i sogni, così disintegro ciò di cui stiamo parlando
Le immagini di ciò che prima riuscivo ad ingabbiarmi e condurmi alla tortura, vengono rifiutate, così come il cibo. Il neonato sugli appigli viene scansato, indiani navaho, pannocchie, stenditoio, rocce e lago come a scuola. Il carnefice scompare, senza mia rivalsa, sempre in procinto di presenza. Il poeta al funerale declama canti retorici, quando tutt'a un tratto si manifestano gli estremi nei partecipanti: da un lato quello che veramente pensano, dall'altro quello che devono mostrare di provare per un morto. Il morto si sveglia per i canti, si alza, si scusa del disturbo. Allenamento verticale, nel quale tu non riesci e poi ti ammali. Io capisco di dover saltar sui muri con noncuranza della nausea che il continuo a stare a testa in giù comporta. Mi devo allenare, scusami: se continuo a cercare di curarti potresti morire per davvero! Ricerca enorme dentro una casa di campagna: identifico un oggetto anni ’90, ma mi sbaglio, è una scarpiera. Poi ne guardo un altro: un porta cd, con pochi cd. Penso che avere pochi cd molto scarni sia una cosa tipica degli anni ’90. Insegno a volare all'interno di un Castorama, non riesco. Allestimenti di mobili, musica stupida. La ragazza che non mi piace passa, mi saluta e non mi bacia. In furgone coi Santoni parlo dei miei sogni: riesco a dimostrargli che questo non è un sogno accendendo la luce posta sopra la mia testa. Click! Sconfiggo pure Linklater. E questa è solo un’infinitesima parte dei miei vent'otto anni onirici, la fonte dei miei distratti ed approssimativi poteri magici. Il motivo ed il momento per cui saprei dirti se e quando mi piace una ragazza non lo trovo scoperchiando ma frantumando quella tazza. Sconveniente e faticoso, come alzarmi dal mio letto ed appuntare un incubo importante. Non c’è niente che me lo impone, non c’è nemmeno amore, od amore per le persone. Solo solo io in frammenti, senza frattale, senza illusione. E quindi? Ah niente, volevo solo dirvi che siamo giunti al limite di questa cosa, ma non al limite delle persone che ve la propongono